C’è stato un momento della mia vita in cui ho creduto fortemente ad OpenStack. A partire dal 2015 ho lavorato al progetto per tre anni e mezzo continuativamente (precisamente alla CI e più precisamente al comparto high availability della CI creando il progetto tripleo-ha-utils), mi sono certificato come Red Hat OpenStack Certified Administrator e ho cercato di conoscere il prodotto più che potevo poiché, lo ripeto, ci credevo.
Al termine di quell’esperienza (Dicembre 2018) ho dovuto, in maniera molto onesta, fare un’ammissione: quella che vedevo come la Next Big Thing sembrava essersi tramutata in una bolla di sapone. Tra frustrazioni ed insegnamenti, ho potuto tirare le somme su di un progetto del quale, ad oggi e nonostante tutto, sento di avere ancora tantissimo da capire.
Cosa è stato frustrante? Su tutto, i problemi del prodotto. Molteplici, ma vorrei ridurli al minimo per evitare ogni tipo di polemica o illazione inutile.
Problema uno: OpenStack è sempre stato difficile da installare. Non impossibile, ma molto difficile. Il livello di know-how dell’utente medio non è sufficiente per predisporre, configurare ed avviare un ambiente completo e funzionale.
Problema due: OpenStack è sempre stato difficile da aggiornare. Pensare di dare continuità ad una installazione community del prodotto (ad esempio TripleO) è praticamente impossibile. I tempi di release da sei mesi, il numero di componenti che indipendentemente si evolvono, la sequenza delle operazioni da svolgere. Anche in questo caso, il know-how richiesto è troppo elevato per immaginarsi un’adozione globale del prodotto.
A chiunque si occupi di informatica e non sappia nulla di OpenStack i due problemi descritti porterebbero ad una sola conclusione: questo prodotto non può funzionare. Eppure le grandi aziende ci hanno provato o ci stanno ancora provando. Sono stati fatti enormi sforzi per automatizzare tanto l’installazione quanto l’aggiornamento delle componenti e, dato di fatto oggettivo, il cuore di OpenStack sta ancora battendo.
Arriviamo così al tema della puntata odierna di Saturday’s Talks.
Quale è lo stato di salute del progetto OpenStack?
Prima di rispondere è necessaria una nuova ammissione: capirlo sta diventando un esercizio sempre più complicato e cercando di concentrarsi sulle notizie recenti si scopre come sia decisamente facile confondersi. Quattro esempi:
- La nuova versione di OpenStack, Train, è ai nastri di partenza circondata dai consueti messaggi entusiastici che sottolineano come questi sia e rimanga l’unico prodotto per il private cloud.
- SUSE ha però annunciato la rimozione di OpenStack dal suo portfolio prodotti e quindi non contribuirà più al suo sviluppo e, non ultimo, non distribuirà più alcun prodotto legato ad OpenStack.
- Mirantis invece, unico player reale che esuli da Red Hat e Canonical, ha annunciato una partnership con la OpenStack foundation per certificare professionisti all’utilizzo di OpenStack.
- Dall’altro lato invece quest’anno abbiamo parlato di come il famoso Summit avesse cambiato nome da OpenStack Summit ad OpenInfrastructure Summit e pareri ben più autorevoli del mio si sono domandati prima di oggi quale sia lo stato di salute del progetto.
Quindi… Come sta OpenStack?
Come avrete capito è veramente complicato rispondere. Anzi, non è mia volontà provarci poiché il motivo dei Saturday’s Talks è proprio quello di parlarne e cercare di condividere come sempre sul portale le opinioni di tutti.
Ironicamente (ma lo verificheremo in base al numero di commenti all’articolo) oltre che difficile da installare o aggiornare OpenStack è complicato anche da… Discutere, ma chiunque voglia dire la sua è come sempre il benvenuto.
La Past-Big-Thing ha ancora un futuro secondo voi?
Da sempre appassionato del mondo open-source e di Linux nel 2009 ho fondato il portale Mia Mamma Usa Linux! per condividere articoli, notizie ed in generale tutto quello che riguarda il mondo del pinguino, con particolare attenzione alle tematiche di interoperabilità, HA e cloud.
E, sì, mia mamma usa Linux dal 2009.
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