Saturday’s Talks: full-remote vs presenza in ufficio, l’eterna dicotomia tra produttività percepita e produttività effettiva

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Ne vale davvero la pena?

Sono le 7 del mattino e una sveglia sta suonando. Alice scende dal letto e, senza ulteriore tempo per indugiare né la lucidità per godersi il momento di pace mattutina, inizia la sua routine quotidiana. Tale routine, che accomunava buona parte degli umani nati nell’ultimo secolo, potrà essere leggermente diversa di persona in persona ma avrà un elemento in comune tra tutti: quella sottile ma persistente sensazione di fretta e stress, che ci accompagnerà dal momento in cui ci laviamo i denti fino a quello in cui non saremo seduti dentro l’ufficio.

Alice non abita esattamente sopra la metro, non vuole iniziare la mattinata bagnandosi sotto la pioggia, prendendo freddo o grandine o aspettando un autobus e i suoi orari, né tanto meno lasciare che l’arrivo in ufficio abbia una componente di incertezza.

Dovrebbe poi cercare di destreggiarsi nella giungla di tali mezzi spesso sovraffollati (che dovrà comunque pagare), spesso così pieni da appannare i vetri di infausta condensa, forzare l’inalazione di odori di ignota natura e annullare completamente qualsiasi minimo civile di distanza tra corpi umani estranei.

Ci pensa un po’, Alice, ma non troppo. Decide di spostarsi con la sua auto in quanto si tratta del male minore. Una volta pronta per uscire, preparata l’auto e settato il navigatore, le attenderà una discreta quantità di tempo nel traffico a respirare smog, con il relativo dispendio di carburante e contributo ulteriore allo smog attorno a lei, senza contare il rischio di incidenti.

Cosa potrebbe andare storto, nell’avere masse enormi di lavoratori che a prima mattina, appena svegli e non dei migliori umori, si riversano nelle strade?

Il tempo, come sappiamo, è uno degli asset più importanti di cui disponiamo ma il miglior utilizzo che ne si possa fare, in questo frangente con le mani e l’attenzione occupate a viaggiare (e su un autobus non andrebbe poi così meglio), è l’ascolto di podcast e news della giornata.

Più realisticamente, viste le circostanze, l’orario, il semaforo ancora rosso e il mood non proprio dei migliori, è più probabile che si finisca per accendere la radio e ascoltare qualcosa a caso, cercando di trovare qualcosa di interessante tra notiziari del traffico, cronaca sportiva o gente che discute l’ultimo post dell’influencer di turno.

Sono le 8.30, Alice è ormai quasi al termine della sua routine e manca la parte più carica di incertezze: la ricerca del parcheggio.

Trovato, non senza difficoltà e imprecazioni man mano che l’orologio scatta di minuto in minuto, un buon candidato che non sia a mezza giornata di cammino dall’ufficio, che non richieda il pagamento di sesterzi a loschi tizi portatori di borsello o che non comporti un verbale a fine giornata sul parabrezza, inizia a camminare a passo svelto verso il bramato edificio.

Ancora un quarto d’ora e Alice metterà finalmente piede in ufficio, ma sebbene sia già sudata e incazzata, la sua giornata non è che ancora all’inizio.

Nel frattempo, da qualche altra parte in Italia, suona un’altra sveglia: quella di Bob.

Il nostro amico Bob lavora da remoto. Tutti i giorni dell’anno.

Mentre Alice sta adesso avendo un primo momento di respiro e spenderà ulteriore tempo per posare borsa/zaino o ombrello, prendere posto, rinfrescarsi in bagno, ‘apparecchiare’ laptop, tastiera, mouse e tutto ciò che le serve, non prima di un ulteriore e necessaria pausa caffè per riprendersi dalla strada, Bob aveva già tutto lì sulla scrivania, pronto dalla sera prima.

Mentre il mondo fuori dalla finestra, qualunque siano le condizioni meteo, si riversa nelle strade già caotiche per spostare i propri corpi da una sedia all’altra, Bob ha appena fatto colazione, espletato la propria fisiologia in tutta tranquillità e può già loggarsi sulle piattaforme di comunicazione aziendali.

Egli, quindi, è già produttivo alle 9 in punto se non qualche minuto prima, con l’aggiunto vantaggio di essere fresco come una rosa.

Le precarie e scomode condizioni di un lavoratore da casa.

Nell’ufficio di Alice sono ormai arrivati tutti. Tra rumore di tacchi e passi in corridoio, telefoni che squillano, porte che si aprono, gente già in meeting che parla di tutt’altre faccende (le cuffie risolvono soltanto metà del problema), porte che si chiudono e vociare generale, cercherà non senza difficoltà di concentrarsi e ascoltare le voci della videoconferenza in cui ora si trova lei.

Sia Bob che Alice inizieranno, adesso, una lunga serie di attività e meeting con ulteriori attori che non saranno nello stesso ufficio e, spesso, nemmeno nella stessa città, rendendo ulteriore beffa al viaggio appena terminato di Alice, che si troverà a lavorare dall’ufficio ma comunque in remoto e che dovrà poi ripercorrere al contrario tale viaggio quando scatteranno le 18, lasciando necessariamente cadere la penna.

Bob, invece, non ha di queste preoccupazioni e non si creerà troppi problemi, se alle 17.50 è ancora concentrato su qualcosa, a terminare con calma ciò che aveva iniziato, anche alle 18.30, se serve, dal momento che comunque, chiuso il laptop, si trova già a casa.

Le ore 18.15 per un professionista che non è stato costretto ad andare in ufficio

Ebbene, anche volendo completamente ignorare la serenità aggiunta di un dipendente che la sera non deve poi anche sbattersi per ritornare a casa sua, risulta immediatamente evidente che, a prescindere da dove si trovi fisicamente il team, il lavoro moderno richieda di interagire con parti sempre più distribuite e distanti sul territorio nazionale e non, interazione che è possibile e proficua tramite gli innumerevoli strumenti di collaborazione, ormai evoluti e collaudati da tempi ben più duri nella scorsa situazione pandemica.

Il business, quindi, non ha confini. Ciò non è mai stato tanto vero quanto oggi, in un mondo che viaggia a distanze e velocità ben diverse da quelle di 30 anni fa.

Cosa dovrebbe essere prioritario, quindi, per un’azienda che voglia mantenere quel margine che la rende competitiva rispetto altre, se non il far di tutto per trattenere il talento e far si che le persone possano dare il meglio di loro stesse, togliendo quanti più possibili e inutili sprechi di energie mentali durante la giornata?

Tra le motivazioni più frequentemente addotte per le politiche di ritorno in ufficio, abbiamo:

  • Team building (socializzazione forzata)
  • Sensazione di controllo sulla produttività del dipendente

Il primo punto ci appare sufficientemente auto-esplicativo. E’ vero che la socialità sia un punto fondamentale per lavorare bene e che senza un team coeso non si va da nessuna parte, tuttavia è facile intuire che v’è una grossa differenza tra la socialità che spontaneamente prende forma anche da remoto e qualcosa di forzato e innaturale.

In tutto ciò, non abbiamo ancora considerato il fatto che, se la premessa era ridurre ulteriormente le distrazioni dal business, il tempo per tale socialità e “team building” sarà inesistente anche in ufficio e, se le teste sono chine sui monitor e l’attenzione centrata su una riunione, la mera vicinanza fisica sarebbe del tutto futile.

Insomma, se il timore dell’azienda è che a casa ci si distragga e che il business non possa permettersi di questi cali di attenzione, non vorrete mica che i dipendenti facciano comunella mentre si sta facendo brain-storming col cliente, no?

Riguardo il secondo punto, davvero la gente a casa produce poco e nulla mentre lavora realmente soltanto in ufficio?

Tale stereotipo salta frequentemente fuori, sia dalle leadership figlie di altri tempi, sia da categorie di lavoratori che, per ragioni pratiche (si pensi a tutti i lavori manuali) non possono espletare le proprie funzioni da remoto e possiedono un’idea distorta di ciò che significhi davvero lavorare in full-remote.

E’ evidente che la scelta possa essere soggettiva e variare in base alla personalità, tuttavia appare evidente che le ragioni per cui un lavoratore non sia produttivo da casa lascino trasparire un’assenza di autocontrollo e etica professionale che sarà difficile possano magicamente riapparire portando la persona in ufficio e che si auspica siano situazioni più uniche che rare, se il processo di assunzione è stato sensato.

Aggiungiamo anche che, sebbene non escludiamo che esistano delle rare posizioni per cui è possibile “farla franca” con una certa assenza e lassismo, ad oggi e nella stragrande maggioranza delle posizioni lavorative nel lavoro tecnologico moderno, si lavora per task, meeting e risoluzione di problemi complessi, che spesso richiedono scambi e feedback immediati con i colleghi. Se un lavoratore decidesse di dedicarsi alla pesca subacquea o al lavaggio della propria auto durante l’orario lavorativo, la cosa risulterebbe immediatamente evidente a tutto il resto del team e non ultimo al manager.

Fatte queste considerazioni e non volendo tediarvi proseguendo con altri innumerevoli esempi, risulta ancora più grottesca e curiosa la scelta di prevedere il lavoro remoto ma con alcuni giorni in sede. Un full-remote con l’asterisco, insomma, che ci pone davanti a una perplessità ancora più grande:

Il lavoratore è o non è produttivo da casa? Se lo è, perché farlo tornare in ufficio un numero arbitrario di giorni? Se non lo è, perché tollerare che lavori anche solo un giorno da casa?

Una politica di questo genere ha come risultato queste e altre perplessità, oltre che imporre il vincolo geografico di dove andare ad abitare. Sia chiaro, non si pretende di poter abitare a Bali e di lavorare da un resort caraibico sotto una palma da cocco e con Margarita al fianco ma, quantomeno, di potersi serenamente spostare in periferia dove l’affitto costa meno, l’aria non è piagata da polveri sottili o persino nella città natale vicino amici, parenti e genitori, i quali possono a volte anche essere non più giovanissimi.

Non da meno è la perplessità su cosa possa servire un rientro forzoso per N giorni, dove N non può che ricadere in una delle seguenti casistiche:

  • N troppo alto, con conseguente esodo di massa del talento che può cercare di meglio lo farà.
  • N troppo basso, che non assolve alcuna utilità se non imporre il vincolo sopra-descritto e sottrarre alcune ore, alcuni soldi e alcune energie alla persona senza una reale ragione.

Anche senza ribadire la lunga lista di vantaggi per il lavoratore, che sarà indubbiamente più fresco e riposato, più soddisfatto e meno a rischio di andare in burnout e cambiare aria, quale sarebbe quindi il vantaggio per l’azienda di avere un team remoto al 100%?

Ebbene, i punti salienti:

  • Un lavoratore che non ha il pensiero della commute potrà dedicare quelle energie alla tanto agognata delivery, e non inizierà già stressato alle 9 di mattina, né starà troppo a fissare l’orologio in prossimità delle 18 con l’ansia di riuscire ad arrivare a casa entro un orario decente, magari dopo aver fatto un po’ di necessarie commissioni, prima di dover andare a letto presto e ripetere tutta la giornata da capo dopo poche ore.
  • Un lavoratore che non dovrà spendere 2-3 ore al giorno soltanto per spostare il suo corpo da un edificio all’altro potrà dedicarle a ore di sonno extra (che si ripercuotono direttamente sulla produttività e sul tasso di errori), alla famiglia, ai rapporti sociali o ad hobby che ne migliorano l’umore e la dignità, oltre che il benessere generale. Tutti fattori che, di nuovo, si ripercuoteranno pesantemente e in positivo sulla qualità del lavoro svolto.

Perché, sì, in tutti gli ambiti che contano e mai come oggi e nell’economia moderna, serve un lavoro fatto bene e di qualità impeccabile.

Non è meno importante il fatto che, nell’IT così come in tanti altri settori, l’impatto di un lavoratore che ha dormito poco perché ha dovuto svegliarsi presto può causare impatti non da poco sulla delivery e altre occasioni per perdere ulteriori ore di sonno non mancano già in condizioni normali.

Errori a lavoro, o lavori svolti male, non faranno altro che minare la fiducia tra azienda e cliente, il quale paga fior di soldi per un servizio che, ci si aspetta, sia il migliore sul mercato.

L’acquisizione del talento, in Italia e non, è già materia complicata. Il talento è raro, così come lo è un professionista IT che rispecchi le aspettative aziendali.

Fatta questa premesse, ci si domanda se sia saggio rendere l’acquisizione di tali talenti ancora più difficile imponendo dei vincoli geografici arbitrari che nemmeno il cliente richiede, dando al candidato ulteriore motivo di titubanza sulla cultura aziendale e sul fatto che l’azienda per cui si sta considerando di lavorare, in presenza di un lavoro fattibile al 100% se non meglio da remoto e per questioni del tutto arbitrarie, ritenga che il benessere del lavoratore passi in secondo piano.

Le preferenze del lavoratore sono apparenti e il fenomeno della mass resignation è ben noto: il 64% di un campione intervistato cambierebbe azienda se fosse costretto a tornare in ufficio.

Vista la difficoltà sopra citata a reperire personale adeguato, ci preoccuperebbe la perdita anche di percentuali ben più basse del capitale umano e, di conseguenza, di know-how e relazioni intessute con colleghi e clienti aziendali che risulterebbe superficiale pensare di poter colmare con continue nuove assunzioni.

Senza sborsare un euro in più, insomma, un’azienda può rendersi appetibile al talent pool già soltanto mettendo sul tavolo la modalità full-remote per chi la desidera, riducendo in un colpo solo anche le emissioni inquinanti (e non dite che non vi interessa, non abbiamo pianeti di scorta dove scappare), il traffico, gli incidenti, i furti in casa, le ore perse senza un valido motivo, i soldi spesi a mangiare in bar di dubbia qualità, lo stress logistico familiare e aumentando la produttività di un professionista che sta bene e sa di lavorare per un’azienda sana, che adotta i famosi principi no-bullshit di cui abbiamo parlato fin’ora.

Troppo bello per essere vero? Ebbene, no.

Che la nostra azienda abbia afferrato o meno che gli anni ’90 della giacca e cravatta con la valigetta 24 ore al fianco sono finiti da un pezzo e che l’apparenza non riesce a sostituire la mancanza di sostanza, è bene tener presente, semmai vi fossero dubbi, che nel mondo e persino nel Bel Paese è pieno di contesti full-remote (senza asterischi) che, guarda un po’, finiscono per acquisire i migliori talenti.

Congratulazioni: avete perso parecchie menti sveglie, che ora lavorano per la concorrenza, soltanto per vedere qualcuno in più in ufficio. Ne valeva davvero la pena?

Appassionato di Linux e della cultura open-source da vent’anni, continuo a fare del mio meglio per diffondere tale filosofia e soprattutto condividere la conoscenza.

C’è sempre qualcuno da qualche parte nel mondo che sta avendo un problema che tu hai già risolto e, condividendo la soluzione, puoi fare la differenza.

Se quel qualcuno sei tu, chiedi pure alla community. La trovi ovunque, ad esempio su reddit.com/r/italyinformatica, reddit.com/r/fedora, reddit.com/r/debian, reddit.com/r/ubuntu, reddit.com/r/archlinux, reddit.com/r/linux, sui forum specifici delle distro oppure sulle loro wiki.

Perchè nessun problema andrebbe risolto più di una volta.

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8 risposte a “Saturday’s Talks: full-remote vs presenza in ufficio, l’eterna dicotomia tra produttività percepita e produttività effettiva”

  1. Avatar Mauro Miatello
    Mauro Miatello

    Non cadiamo però nella trappola opposta, ovvero che remote working sia buono e giusto e ottimo per tutti, perchè non è così. Per lavorare da remoto ci vogliono anche capacità di organizzarsi e rigore, e una certa dose di autocontrollo, e non tutti ci riescono. Perchè se è vero che il talento è prezioso, è vero anche che è raro…

  2. Avatar Giacomo Perin
    Giacomo Perin

    Pochi casi in cui lo smartworking funziona != smartworking funziona

  3. Avatar John Toscano
    John Toscano

    > 1: il remote working non è per tutte le posizioni lavorative

    Certamente! Massimo rispetto per chi svolge lavori manuali o che richiedono presenza fisica. E’ chiaro che il mondo è anche reale e non solo digitale.

    Le riflessioni di tutto il post sono però riferite ai lavori che si possono tranquillamente svolgere da remoto e alla contraddizione che essi causano nel far spostare una persona per poi farla collegare a videoconferenze con gente che sta a sua volta lontana eo agire su sistemi (ad esempio Cloud) che non sono neanche in Italia.

    > se hai famiglia diventa un problema quando il coniuge/figli sono in casa.

    Sicuramente serve uno spazio dedicato, ma almeno vi sono delle opzioni, al contrario di chi è costretto a lavorare in ufficio con altre persone che, giustamente, nell’espletare il loro lavoro creano a loro volta rumori vari.

    Sempre nell’ottica della logistica familiare, credo che il remote aiuti più che nuocere. S’immagini a quante commissioni è possibile svolgere in quelle 2-3 (a volte di più) ore di pendolarismo risparmiate, ma anche banalmente a quanto tempo in più si possa dedicare ai propri cari.

    Durante la pandemia abbiamo avuto un boom di nascite. Non credo sia necessario entrare nei dettagli, nè che esistano persone che possano preferire il traffico di rientro a momenti di qualità con le persone a cui teniamo.

    > 4: se non vado fisicamente in sede, le mie spese di elettricità e riscaldamento aumentano. In estate avrò bisogno dell’aria condizionata.

    Sono spese che, secondo me, si avrebbero in ogni caso, visto che prima o poi a casa si deve tornare, e spesso è la prima attivazione della climatizzazione a consumare di più, non tanto il mantenimento di una certa temperatura.

    Anche fosse, preferirei pagare qualcosa in più di climatizzazione che spenderli per strada tra bar, parcheggi e benzina.

    > In casa cominci a lavarti di meno, a stare in ciabatte tutto il giorno e se non devi fare videochiamate anche in pigiama…

    Molti di noi potranno raccontare casistiche di gente che trascura la cura del proprio corpo (anche a livelli basilari) anche in ufficio. In ogni caso, una persona che si trascuri è un sintomo di altre problematiche, visto che lavorare da remoto non significa che poi alle 18 non si possa uscire di casa, ma anzi vi è più possibilità e, semmai, più ragione di curarsi, poichè si vedrà gente, si andrà in palestra, ecc, invece di buttarsi ancora vestiti, esausti, sul divano, senza voglia di far altro dopo una giornata di lavoro + viaggio già estenuante di suo.

    Quanto alle ciabatte, se le si tengono addosso magari è perchè sono comode, ma nulla impedisce di verstirsi in tiro la mattina se proprio ci si tiene, senza contare il fatto che in molte posizioni è quasi impossibile non avere alcuna riunione.

    In ogni caso, è chiaro che non esiste “una sola taglia per tutti”, ma chiunque griderebbe allo scandalo se una di queste taglie mancasse.

  4. Avatar Andrea Quaglia
    Andrea Quaglia

    Alcune ovvietà:
    1: il remote working non è per tutte le posizioni lavorative (è difficile programmare armadi pieni di PLC stando sempre a casa…).
    2: se hai famiglia diventa un problema quando il coniuge/figli sono in casa.
    3: ci vuole uno spazio dedicato (non si può lavorare dal tavolo della cucina) e riservato.

    4: se non vado fisicamente in sede, le mie spese di elettricità e riscaldamento aumentano. In estate avrò bisogno dell’aria condizionata.
    C’è poi il discorso dell’alienazione: in sede avrò contatti con persone più o meno positive, che nella sommatoria finale diranno se l’esperienza lavorativa mi ha arricchito o no. In casa cominci a lavarti di meno, a stare in ciabatte tutto il giorno e se non devi fare videochiamate anche in pigiama…

    Per me è positivo il remote working ma non deve essere considerato la salvezza del mondo. Forse si potrebbe adottare un approccio tipo “sede di lavoro distribuita”, con unità operative sparse sul territorio, in modo da ridurre al minimo gli spostamenti del personale, e forse si dovrebbe anche pensare a una gestione dell’orario di lavoro meno rigida.

  5. Avatar Raoul Scarazzini

    Penso che questa riflessione, che a tratti mi sorprende come anche qualche altro commento, contenga tutti i limiti di interpretazione di quel che voglia dire lavorare da casa per buona parte dei lavoratori. Pigiama e ciabatte sono una scelta, tanto quanto presentarsi in ufficio in costume, cosa che però nessuno (auspicabilmente) farebbe mai.
    Quindi non è un limite della forma lavorativa, ma dell’interpretazione che le persone danno a questa forma.
    La verità è che manca la cultura, in primis nelle alte sfere, del lavorare a task, in maniera asincrona e senza dover per forza stare nello stesso posto. Quest’ultimo aspetto giova a chi non sa organizzarsi perché, male che vada, puoi sempre metterci una pezza andando a parlar di persona.
    Si chiama “comfort zone”.

  6. Avatar Raoul Scarazzini

    Dici benissimo. Generalmente chi è avverso allo smart working è il responsabile a cui manca la capacità di organizzarsi, la fiducia verso i propri collaboratori e la capacità di lavorare in asincrono. Tutte cose che in presenza sono decisamente attenuate dall’illusione che, poiché siamo tutti qui fisicamente (come in un rito religioso), qualcosa sta sicuramente succedendo.
    E invece non è mai così.

  7. Avatar M²

    Il problema è che bisogna avere un ufficio in casa.
    Se si fa reperibilità a chiamata notturna se non si hanno gli spazi in casa è si hanno bambini piccoli, diventa un problema.

  8. Avatar Raoul Scarazzini

    L’aspetto logistico è certamente il più rilevante di tutti.
    Ma è necessario fare i corretti distinguo sugli esempi che citi, ad esempio la reperibilità è qualcosa che da sempre si fa in remoto, quindi prescinde dai problemi logistici.
    Per quanto riguarda invece i bambini piccoli, questi costituiscono un problema solo nel momento in cui il lavoratore deve lavorare e allo stesso tempo curarli.
    Il che di suo è incompatibile per definizione.
    Se un lavoratore si reca in ufficio dovrà certamente organizzarsi affinché i bambini piccoli siano custoditi a dovere (e questo comporta a prescindere tutte le difficoltà che sono parte della nostra società purtroppo), in smartworking il discorso è identico: non è che la condizione di lavoro remoto comporta anche la possibilità di curare i figli. Son due cose distinte, e spesso confuse, sia dai lavoratori stessi che dai dirigenti sopra di loro che pensano a come i dipendenti siano a casa a farsi i fatti loro.

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