Saturday’s Talks: c’è una ragione se la cloud repatriation coincide con l’ascesa dell’AI?

Sabato piovoso e denso di riflessioni profonde, a tratti complottiste, di quelle che ti fan pensare a come forse ci sia un piano deciso da qualcuno per cui le cose si evolvono come stanno facendo.

In realtà il ragionamento di oggi è molto più semplice di così, ma è bene partire dall’inizio, cioè dalla cloud repatriation. L’argomento è noto ed è stato trattato ampiamente in precedenti Saturday’s Talks, su tutti quando abbiamo parlato lo scorso novembre di Toyota, futuro, cloud repatriation e backup falliti e quando ancora prima, nel 2022, ci siamo chiesti se il prossimo passo dell’evoluzione informatica sarà l’abbandono del cloud ed il ritorno ai datacenter di proprietà.

La questione è quindi nota.

C’è una tendenza da parte di quanti si erano riversati sul cloud: fuggire. Per i costi, la complessità e le aspettative non propriamente rispettate. Le promesse mancate, potremmo dire.

Se date un’occhiata a questo articolo di InfoWorld ci sono diverse ragioni che vengono date per comprendere la repatriation, ma la più evidente è proprio quella delle aspettative.

Fin qui tutto lineare, non fosse per un altro passaggio rilevantissimo, che segue l’affermazione “Don’t feel sorry for the public cloud providers” (non dispiacetevi per i cloud provider):

The cloud providers may be losing workloads and data sets that never should have been on a public cloud in the first place, but they will still enjoy explosive growth. Thank the AI gods that shone down upon them the reality that they are the most convenient place to build and host generative AI applications and data.

I cloud provider stanno forse perdendo workload e data set che non avrebbero dovuto essere messi sul cloud pubblico dal principio, ma stanno in ogni caso riscontrando una crescita esplosiva. Grazie agli dei dell’AI che li hanno benedetti, essi rimangono il posto più conveniente per costruire ed ospitare applicazioni e dati della generative AI.

Per quello non c’è da dispiacersi: i cloud provider cadranno sempre in piedi, o quantomeno con la storia dell’AI lo stanno facendo. Quindi è palese come sia nell’interesse dei grandi cloud provider, Google, Microsoft e Amazon (ma non solo), che si usi l’AI ovunque.

E non può essere un caso leggere articoli come questo di DevOps.com intitolato Forget Shift Left: Why ‘No Shift’ is the Future of Software Innovation.

Quello che vi si racconta è semplice: se è vero che il paradigma dello Shift Left, ossia l’inserimento della sicurezza sempre più all’inizio del processo di sviluppo (quindi “a sinistra”), è ancora valido, oggi è bene valutare invece il No Shift, cioè l’inserimento di ausili automatici, leggi intelligenza artificiale, che gestiscano tutto questo al posto degli umani.

E che dire del CEO di NVIDIA che consiglia ai ragazzi di non imparare la programmazione, quanto piuttosto ad usare l’intelligenza artificiale. Lui, che è a capo dell’azienda che ha superato Apple e Google proprio perché produce chip per l’AI.

Perché sono troppo complessi i processi, troppo impensabile capire cosa sta succedendo, meglio affidarsi all’entità superiore rappresentata dall’intelligenza artificiale che guiderà il tutto.

Peccato che tra i punti deboli di questo approccio ce ne sono due in particolare: complessità e overhead. Quindi per gestire una complessità grande ci vuole uno strumento grandemente complesso. Che tendenzialmente pochi eletti sanno far funzionare e che, senti senti, può girare solo sul cloud.

Quindi ecco il fiorire di soluzioni ultra complicate (Intelligent CI/CD, come in “Artificial Intelligence“) il cui costo viene giustificato con la promessa di risolvere in maniera automatica tutti i problemi, ignorando però il problema principale: l’automatismo viene sempre dopo l’organizzazione coerente del processo, cosa che manca al 90% delle aziende.

Ma del resto è stato così anche per il cloud: avanti, c’è posto si diceva. Tutti a portare sul cloud carichi di lavoro che avrebbero potuto essere ottimizzati nei datacenter con una migliore organizzazione, nella speranza che una volta parte del magico ambiente in cui tutto era possibile (scalabilità infinita, per esempio) tutti i problemi se ne sarebbero andati.

Come è andata a finire? Con la cloud repatriation.

Come andrà a finire con l’AI?

Nessuno lo può dire. Una cosa però è chiara, ed è che pensare di usare l’AI per risolvere i propri problemi magicamente è come cercare di infilarsi le scarpe senza slacciare i lacci, cercando di far prima. Del resto ce la ricordiamo tutti la pubblicità vero? Il pennello non dev’essere un pennello grande, ma un grande pennello.

Da sempre appassionato del mondo open-source e di Linux nel 2009 ho fondato il portale Mia Mamma Usa Linux! per condividere articoli, notizie ed in generale tutto quello che riguarda il mondo del pinguino, con particolare attenzione alle tematiche di interoperabilità, HA e cloud.
E, sì, mia mamma usa Linux dal 2009.

5 risposte a “Saturday’s Talks: c’è una ragione se la cloud repatriation coincide con l’ascesa dell’AI?”

  1. Avatar amedeo lanza
    amedeo lanza

    I problemi di fondo sono sempre gli stessi: l’ignoranza (a diversi livelli) porta a sovrastimare qualcosa e ritenerlo la panacea a tutti i problemi. Negli anni 80 un conoscente, ingengere e figlio del titolare di un’impresa edile, spese circa 2.500.000 lire per acquistare un 286 con un’applicazione per l’elaborazione di computi e preventivi dei progetti. Scoprì che il PC non faceva tutto da solo ma avrebbe dovuto studiarsi il corposo manuale per imparare ad utilizzarlo. Continuò a fare il lavoro a mano ed il PC rimase utilizzato solo dal fratello con un gioco di corse automobilistiche (aveva già la scheda VGA con la grafica, a quei tempi, spettacolare).
    Intanto vediamo i primi effetti delle fiducia malriposta nella IA (che può stare a buon ragione per Idiozia Avanzata) nella figuraccia che si è fatta Air Canada.

  2. Avatar Raoul Scarazzini

    Due milioni e mezzo per un 286 tanta roba, se poi c’era la VGA 😀

  3. Avatar amedeo lanza
    amedeo lanza

    Ora non ricordo bene, forse comprendeva il costo dell’applicazione e del resto era più o meno in linea con i prezzi di mercato dei cloni (per un HP si arrivava anche sui 5 milioni)

  4. Avatar Raoul Scarazzini

    Sì, riflettevo sul fatto che un bene simile, comparato che so, ad un’automobile, nel giro di un decennio aveva perso totalmente il suo valore.

  5. Avatar amedeo lanza
    amedeo lanza

    per fare qualche paragone: la mia prima macchina fun un 127 usato pagato un milione, il primo pc (il mitico M24 targato at&t pc 6300 con ben 2 floppy e 640kb di RAM, andato a ritirare a Ivrea col 127), 1.900.000; il disco dalle dimensioni esagerate di 20MB (allora il taglio più diffuso era 10MB) con il suo controller 900.000 lire. Pensa con quel costo quanti tera ti puoi comprare adesso.

    Parecchi anni più tardi acquistai per un cliente un portatile Acer Travelmate supertopdigamma al modico prezzo di 10.000.000

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