
Abbiamo ampiamente parlato nell’ultimo periodo del tema Digital Sovereignty, in italiano sovranità digitale. Lo abbiamo fatto commentando la notizia della volontà da parte della Danimarca di abbandonare Microsoft e Office per passare a LibreOffice e Linux e leggendo poi il report dell’Open Source Observatory a proposito dello stato di salute dell’open-source in Italia.
Il punto è sempre quello: il mezzo con cui gli stati possono garantire la proprietà sui dati pubblici non può essere che l’open-source. Perché non è solo una questione di dove i dati sono registrati, ma soprattutto di come lo sono. Per questo, in coda agli articoli citati, aggiungiamo questo articolo di The Register, intitolato The year of the European Union Linux desktop may finally arrive.
Il pezzo, a firma di Steven J. Vaughan-Nichols, è un’opinione chiara e netta: la vera sovranità digitale inizia dal desktop. E, tornando alla scelta Danese citata in apertura, è esattamente lì che si gioca oggi una delle partite cruciali tra ciò che è pubblico e ciò che è proprietà privata – spesso oltreoceano.
Vaughan-Nichols osserva come Microsoft, di fatto, stia abbandonando l’idea di vendere sistemi operativi per puntare tutto sulla sottoscrizione dei propri servizi cloud, con l’effetto collaterale – ma per nulla trascurabile – di spostare dati, metadati e infrastrutture nei datacenter statunitensi, sotto la giurisdizione americana. Una prospettiva che preoccupa sempre più aziende e istituzioni europee, soprattutto in un contesto politico come quello attuale, con dazi che crescono la notte come fragole in un bosco.
A questo proposito, viene ricordato il caso della Corte Penale Internazionale (International Criminal Court, ICC), il cui procuratore capo si è ritrovato improvvisamente bloccato fuori dal proprio account Microsoft dopo l’emissione di mandati di arresto internazionali. Microsoft nega ogni coinvolgimento, ma il sospetto resta. E il messaggio – come affermato da Peter Ganten dell’Open Source Business Alliance – è chiarissimo: l’indisponibilità dei servizi a causa di pressioni politiche esterne deve rappresentare un campanello d’allarme per tutti coloro che gestiscono infrastrutture IT pubbliche e private.
L’Europa, lentamente, sembra essersene accorta ed a muovere queste scelte non è più solamente il risparmio economico, ma un concetto chiave: il controllo.
E si tratta di azioni non simboliche, ma concrete che si basano su un’esigenza reale: la necessità di poter disporre di strumenti digitali sicuri, controllabili, trasparenti, propri. Perché se è vero che i dati sono il nuovo petrolio, allora è impensabile che i pozzi si trovino in territori inaccessibili.
Nasce quindi qui la provocazione, ma non troppo, dell’articolo: una distribuzione EU OS, magari basata su Fedora Kinoite o su alternative più europee come Linux Mint o openSUSE.
Alla fine, il cambio di paradigma è davanti a tutti: o si resta agganciati a una piattaforma la cui disponibilità e integrità dipendono da attori terzi, o si fa uno scatto in avanti e si investe su ciò che può essere controllato, distribuito e migliorato collettivamente.
Ci siamo sempre chiesti se il veicolo per la diffusione del desktop Linux potesse essere rappresentato dall’accessibilità ai giochi o dal risparmio derivante dalla gratuità. E se invece fosse la sovranità digitale?
Da sempre appassionato del mondo open-source e di Linux nel 2009 ho fondato il portale Mia Mamma Usa Linux! per condividere articoli, notizie ed in generale tutto quello che riguarda il mondo del pinguino, con particolare attenzione alle tematiche di interoperabilità, HA e cloud.
E, sì, mia mamma usa Linux dal 2009.
Lascia un commento