OpenStack Summit Barcellona 2016: un riassunto ed alcune riflessioni

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Il 28 ottobre si è concluso l’ultimo OpenStack Summit, la cui location in questa seconda edizione del 2016 è stata Barcellona. Cosa è emerso? E’ possibile riassumere in forma estremamente compatta questo evento? Proviamoci.

Il secondo Summit del 2016 è durato come di consueto cinque giorni, quattro dei quali strettamente dedicati a discussioni, workshop e sessioni lavorative. L’audience è stata molto alta: più di cinquemila persone. Se si ragiona sul fatto che, in fondo, si tratta di un singolo progetto, il numero diventa davvero impressionante, anche se a detta di molti le edizioni precedenti erano state più numerose.

Ogni vendor ha quindi voluto mostrarsi protagonista nel contesto: Red Hat, IBM, SuSe, Canonical, CISCO, Rackspace, Netapp, Dell, EMC, nessuno ha mancato il grande appuntamento, ognuno con i propri prodotti da mostrare.

Due gli argomenti su cui la maggioranza dei talk sono stati incentrati:

  1. Automazione: OpenStack è un progetto estremamente complicato che si allarga ogni giorno di più. Per ogni nuovo componente integrato la complessità generale avanza di un passo e pensare di gestire il tutto a mano è impossibile. Non è questione di mancanza di buona volontà, ma l’automazione è oggi imprescindibile se la volontà è quella di costruire ambienti manutenibili e, soprattutto, scalabili.
    Da qui la necessità di utilizzare strumenti di automazione che agevolino l’operatore nell’installazione e nella manutenzione dell’ambiente. Siano questi gestiti da Ansible, Puppet, combinazioni dei due e chi più ne ha, più ne metta.
  2. Container: la vera buzzword di tutto il summit è stata questa. Strettamente correlata al punto 1, la naturale evoluzione di ciascuna delle componenti di OpenStack sarà quella di essere erogata da container. Questo agevolerà moltissimo la gestione dell’ambiente e delle due lacune fisiologiche di cui al momento soffre: elasticità e aggiornamenti.

Proprio su questi due ultimi aspetti erano basate le discussioni nei corridoi tra sviluppatori, operatori del settore e semplici curiosi. Allungando l’orecchio era infatti possibile ascoltare le domande che ognuno si pone prima o poi pensando ad OpenStack:

  • Con una release ogni sei mesi è possibile aggiornare OpenStack sempre in maniera consistente?
  • E’ possibile estendere o ridurre il proprio ambiente in maniera agevole senza rischiare disservizi?
  • Come è trattato l’aspetto relativo all’alta disponibilità dei servizi? Cosa succede se si perde una componente base come il database?

Domande legittime, a cui i vendor cercano di dare una risposta rassicurando, ove possibile, i clienti che sono indecisi sul se adottare o meno questo progetto. Quanti di questi abbiano chiaro come OpenStack non sia un rimpiazzo per i propri ambienti virtualizzati non è dato di saperlo, e solo il tempo saprà fornire una risposta adeguata a questa domanda.

Cosa rimane di negativo in questo Summit?

La risposta a questa domanda è: il fumo. Sì, perché sulla carta container, automazione e tutte le parole chiave emerse durante il Summit sono certamente valide, ma solo in prospettiva. All’atto pratico quanto oggi offre il mercato è relativo. Alla domanda “se ho un container per il mio database e perdo quel container, ho la certezza di non perdere alcun dato e di non avere disservizi?” la risposta varia da prodotto a prodotto. Ciascuno uguale e diverso, per installazione, gestione e scelta delle componenti impiegate. Sì OpenStack è un progetto unico, ma ogni vendor lo ha fatto proprio, rendendo il contesto generale, appunto, fumoso.

Cosa rimane di positivo?

Certamente lo spirito, tanto del progetto quanto della gente. Vedere così tanto movimento intorno ad un progetto aperto rimane ancora la cosa più impressionante. Dimostra come la comunione di intenti possa portare risultati straordinari. Il mondo aperto è vivo e vegeto, lo conferma, sebbene in un ambito diverso da quello di OpenStack, quanto detto da Jim Whitehurst, CEO di Red Hat, il quale afferma come il mondo, non solo le aziende tecnologiche, si stia spostando verso l’approccio open e lo conferma l’incremento dell’utilizzo di Linux in ambito desktop, che si afferma sopra al due per cento per il terzo mese consecutivo. Open e Linux, parti integranti di OpenStack. Il futuro di OpenStack è quindi roseo?

Conclusioni

La vera prova per OpenStack arriverà quando l’onda lunga della novità sarà esaurita. Quando cioè OpenStack sarà obbligato a passare dall’essere un progetto promettente ad un progetto enterprise, capace cioè di muovere (leggi, far guadagnare a chi ha investito) soldi.

In conclusione rimane da capire se e come tutti i grossi nomi che oggi stanno investendo in questa piattaforma riusciranno a sopravvivere. Chi potrà rispondere a questa domanda? Sempre lui, il tempo.

Da sempre appassionato del mondo open-source e di Linux nel 2009 ho fondato il portale Mia Mamma Usa Linux! per condividere articoli, notizie ed in generale tutto quello che riguarda il mondo del pinguino, con particolare attenzione alle tematiche di interoperabilità, HA e cloud.
E, sì, mia mamma usa Linux dal 2009.

2 risposte a “OpenStack Summit Barcellona 2016: un riassunto ed alcune riflessioni”

  1. Avatar Fabrizio
    Fabrizio

    Grazie per aver citato il #1 code contributor di OpenStack, Mirantis.

  2. Avatar Raoul Scarazzini
    Raoul Scarazzini

    Sì, è vero il nome manca. Devo essere stato influenzato dalle notizie recenti tipo questa http://www.theregister.co.uk/2016/11/02/hpe_mirantis_sack_openstack_workers/ che parlano di licenziamenti (in Mirantis ma anche in HP) e citano, testualmente, frasi come questa:

    Stackalytics (http://stackalytics.com/), a website that tracks OpenStack community contributions, shows declining commitment – in terms of amount of code contributed to the project – from HPE and Mirantis.

    Quindi ad essere precisi, in verità, il contributor #1 di OpenStack è attualmente Red Hat.
    Detto questo, lunga vita a Mirantis!

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